“Oggi viviamo in un’epoca in cui si parla sempre e solo di diritti … i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”. Da questa frase (forse quella a più alto impatto emotivo) tratta dall’intervento di Sergio Marchionne presso lo stabilimento Sevel-Fiat di Atessa (9 luglio 2013) ha preso avvio una discussione che ha toccato diversi punti importanti per la vita sociale ed economica del nostro paese.
Il primo passaggio è stato quello di collegare il discorso sui diritti al concetto di contratto quale momento fondante delle interazioni economiche e sociali (“puoi beneficiare di un contratto se ti assumi le responsabilità presenti in quel contratto”). E, quindi, al più generale concetto di norma, che risponde all’esigenza di definire e regolare i comportamenti, anche in considerazione di alcune acquisizioni della scienza del comportamento, quali la “inversione delle preferenze”, che si riscontra in ambito sperimentale con riferimento alla “scelta intertemporale”.
A questo proposito abbiamo ricordato che regole poco chiare, ambigue e/o non coerenti possono incidere sulla relazione fra comportamento (strumentale) e conseguenze del comportamento (rinforzatore), compresa la relazione che implica il sacrificio di interessi di breve periodo rispetto al soddisfacimento di interessi di medio-lungo periodo. Queste relazioni concernenti il comportamento possono essere poste alla base del concetto di dovere (“un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare”), mentre il loro indebolimento può essere collegato a logiche di acquisizione immediata (qui e ora) e in assenza del relativo “costo”, come nel caso del free riding e dei fenomeni di deviamento o, per riprendere il testo, di “comportamenti anomali che non sono il linea con le aspettative condivise” e di comportamenti non coerenti con gli obiettivi dati.
Il problema diventa a questo punto la sostenibilità di un contesto sociale, più o meno ampio, in cui risultino compromesse le aspettative sulla stabilità e sulla conformità dei comportamenti alle norme, sulle quali si fonda il concetto di fiducia, che costituisce un indicatore di “qualità” del capitale sociale. Anche l’impresa deve poter fare affidamento su queste garanzie relative al capitale sociale per poter affrontare i “rischi legati all’incertezza dei cicli economici e dei mercati”. In questo senso abbiamo interpretato il richiamo all’impossibilità, per l’imprenditore, di prendersi “il rischio di un sistema che non garantisca norme certe” e l’asserzione secondo cui “Un paese dove ogni certezza viene messa in dubbio, dove gli accordi si firmano ma poi si possono anche non rispettare, dove una norma può essere letta in un modo ma anche nel suo contrario … è un deterrente per chiunque voglia venire a investire in Italia”.
Non è sfuggito che le norme non possono comunque prescindere da un’attività di interpretazione. Abbiamo però osservato che l’attività legislativa dovrebbe tendere all’elaborazione e manutenzione di un sistema normativo che riduca al minimo la variabilità dell’attività di interpretazione, mentre in Italia sembra che lo spazio creato per questa attività venga ampliato a piacere.
Siamo quindi passati alle considerazioni concernenti più direttamente il contesto interno all’impresa e la cultura organizzativa, soffermandoci in particolare sui seguenti aspetti:
- l’interiorizzazione degli obiettivi dell’impresa, che dovrebbe fondarsi sulla consapevolezza che il successo dell’impresa è una condizione fondamentale per il mantenimento dei posti di lavoro; nel testo si fa a questo proposito riferimento all’impresa come “progetto comune” e al cambiamento de “l’azienda dall’interno, nella struttura e nella cultura, ridandole il senso della sfida e della competizione”;
- l’atteggiamento del lavoratore, che dovrebbe fare il dipendente come se fosse un imprenditore; nel testo questo punto non è forse sufficientemente evidenziato, ma si richiama l’esigenza che si recuperi “il senso del lavoro” e “l’orgoglio di fare le cose e farle bene”;
- il ruolo dell’imprenditore, al quale dovrebbe essere garantita la possibilità di innovare anche nella funzione organizzativa, per realizzare all’interno della propria impresa un ambiente di lavoro positivamente orientato alle esigenze di produttività e competitività, senza che la sua discrezionalità venga eccessivamente limitata dai vincoli dei contratti collettivi nazionali del lavoro; nel testo si fa riferimento, a questo proposito, all’esigenza che vengano “riconosciute e tutelate la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa”.
Queste considerazioni ci hanno portato al punto fondamentale del testo: la relazione fra produzione e distribuzione e la necessità di riconoscere “la priorità della produzione” (“primato della produzione”). Il fatto che l’Italia abbia finora operato sulla base del primato della distribuzione è evidente: il debito pubblico e la pressione fiscale sono le conseguenze più visibili. Noi ci siamo però soffermati su conseguenze alle quali forse si presta meno attenzione, ma che incidono ancora più profondamente sulla possibilità di ripresa del nostro paese: una sorta di degrado del capitale umano, che corre il rischio di lasciare l’Italia in una situazione di forte debolezza di fronte al confronto, non più eludibile, in un contesto globalizzato caratterizzato dalle regole del mercato.
Il riferimento più immediato è stato quello alla pubblica amministrazione e, più in generale, al settore pubblico; contesti nei quali l’acquisizione di un ruolo lavorativo può essere vissuta come l’acquisizione di una posizione di rendita distributiva. Abbiamo però esteso il problema anche all’impresa, per riconoscere che in Italia il primato della distribuzione ha nei fatti, seppur in misura diversa e in modo meno evidente, alterato la natura dell’impresa, che da entità di produzione è diventata essa stessa entità di distribuzione.
In un paese che si è dato le regole del gioco della distribuzione, infatti, anche gli imprenditori hanno giocato secondo quelle regole. In questo senso possono essere interpretati i tavoli di contrattazione collettiva, dove alle rivendicazioni sulla tutela del diritto al lavoro (inteso come diritto alla partecipazione alla distribuzione), espresse dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori, hanno fatto da contraltare le richieste di risorse pubbliche da parte dei sindacati degli imprenditori. Il criterio della presunta equità si è esteso dal contesto pubblico sociale al contesto privato dell’impresa, a scapito del criterio di efficienza che dovrebbe caratterizzare la funzione di produzione; l’impresa è diventata essa stessa ammortizzatore sociale.
Questo ha determinato un indebolimento della nostra dotazione di capitale umano:
- l’indebolimento delle capacità lavorative di chi per anni ha ricoperto ruoli formalmente produttivi, ma sostanzialmente esercitati come ruoli distributivi (garantiti dalla tutela del diritto al lavoro);
- l’indebolimento delle capacità imprenditoriali e manageriali in un contesto che, non riconoscendo la priorità della produzione, ha fortemente attenuato la necessità di acquisire posizioni competitive e di leadership sui mercati.
A questo proposito abbiamo ritrovato nel testo un passaggio in cui si prendono in considerazione gli “effetti” sociali della cultura dei soli diritti derivante dalla priorità della distribuzione: “questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza il coraggio di lottare, ma con la speranza che qualcun altro faccia qualcosa. Una specie di attendismo che è perverso ed è involutivo”.
In sintesi, emerge il problema fondamentale della cultura, che in Italia è inoltre tradizionalmente caratterizzata anche in termini di conflitto fra lavoratore e imprenditore; laddove nel testo si auspica che l’industria possa invece rappresentare una forza unificatrice per il paese. L’esigenza di un cambiamento culturale esiste, anche se non è semplice da realizzare. Fra le difficoltà, nel testo si fa riferimento al fatto che “quando si introduce un cambiamento non ci si può aspettare un consenso unanime” e che, in una prima fase, il cambiamento può “contribuire ad ampliare le distanze col paese”.
Noi abbiamo però voluto considerare anche il fatto che, attualmente, le resistenze al cambiamento sono spesso espresse da organizzazioni, quali quelle sindacali, ma non solo, che hanno un forte problema di rappresentanza: sia al loro interno, nei meccanismi di individuazione delle classi dirigenti; sia nei loro rapporti col contesto sociale esterno, per quanto riguarda il dimensionamento delle classi sociali di riferimento e la diffusione nel paese degli interessi rappresentati e tutelati. In quest’ottica, non si può sminuire l’accettazione di nuove regole del gioco da parte di alcune rappresentanze sindacali sottratte ai tavoli della contrattazione nazionale, come si fa quando la si interpretata come una forma di imposizione per il solo fatto di prevedere condizioni di lavoro meno favorevoli delle precedenti. L’accettazione di condizioni contrattuali che appaiono più deboli rispetto all’istanza distributiva può, infatti, rappresentare una forma di nuova consapevolezza della classe dei lavoratori rispetto all’esigenza di ridefinire la relazione fra produzione e distribuzione, e come tale dovrebbe essere rispettata.
Questo discorso ci ha portato a sfiorare il problema della rappresentanza, non solo sindacale ma anche politica, e il problema dell’adeguatezza delle attuali classi dirigenti. Un discorso che non abbiamo affrontato, in quanto ci avrebbe allontanato dal testo, ma che ci siamo ripromessi di discutere in uno dei successivi incontri, con riferimento ai temi della democrazia rappresentativa e all’esigenze di interpretare le problematiche del contesto politico e sociale, oltre a quelle del contesto più strettamente lavorativo, sulla base del concetto di organizzazione. Ci siamo limitati ad osservare, problematicamente, che il concetto di organizzazione fa sorgere qualche ragionevole dubbio sul possibile superamento delle democrazie rappresentative a favore di forme di democrazia diretta.